Per essere precisi ci hanno fatto aspettare 4 anni, 3 mesi e 8 giorni.
Però com'è che si dice in questi casi? Ne è valsa la pena, ecco.
Ragazzi, se prendendovi un po' di tempo in più tirate fuori tutte le volte un album così, prego, fate con comodo.
Si, vabbè, si fa per dire eh, che qui se il fandom non fa un po' pressione il prossimo album ce lo ritroviamo per i cinquant'anni del Molko.
Anyway, arriviamo al punto.
Dopo quasi una settimana di ascolti compulsivi sono quasi in grado di parlarne.
Prima di tutto. My baby.
E sì, la sorte, gli dei, i Tommyknockers, il culo tutti
insieme hanno unito gli sforzi e mi è arrivata una delle 1000 copie
autografate.
Il che mi ha causato un mezzo infarto e una certa fissità
dello sguardo per le ore successive alla scoperta.
Per amor di onestà va detto, avevo delle perplessità. E dei
timori. Legati principalmente
a) ai colori della cover - che resta tuttora quella che mi
piace di meno tra tutte le loro, meno ancora di Battle for the Sun, che forse era sciatta ma almeno non era mezza
fucsia, e
b) alla presenza sospetta di quel fastidioso Love che in una forma o nell'altra imperversa
in buona parte delle nuove uscite di quest'anno.
Va anche detto però che la mia inquietudine è considerevolmente
diminuita quando sono entrati in fase di lancio vero e proprio e han cominciato
a rilasciare dettagliate interviste su temi e contenuti, fino all'ultimissimo periodo
pre-uscita in cui hanno postato i teaser dei video di quasi tutte le tracce.
Di sicuro questo è stato il miglior lancio di un album che abbiano
mai fatto. A parte qualche traballamento e qualche ritardo - più o meno
fisiologico (dai Ant, non è sempre tutta colpa tua, è che sei quello con cui è
più facile prendersela), l'hanno organizzato proprio bene. Con tanto di culmine,
la serata dell'uscita, con quasi due ore di diretta in streaming dagli sudi di
YouTube, collegamenti con Los Angeles e Tokyo, interviste, momenti divertenti,
8 tracce live, contest con premi (tra cui una delle prime Fender di Brian
autografata sul momento, sigh), collegamenti in diretta con i fans e veramente
un sacco di materiale interessante.
Davvero, non avrebbe potuto riuscirgli meglio.
Quanto all'album di per sé, è buono in un modo che forse non
ritenevo più possibile. Forse, più o meno consciamente, mi ero rassegnata
all'idea dei Placebo di Battle for the
Sun, della filosofia dell'adattamento, della virata pop - non tanto nelle
melodie quanto piuttosto nell'atteggiamento di fondo. Mi ero forse rassegnata
più di quanto mi piacesse ammettere a questo nuovo Brian che sbandierava fiero
in giro il suo passato tossico/alcolico per poter dire guardate, ne sono
uscito. Mi ero forse rassegnata più di quanto pensassi all'idea che i Placebo
non erano più quei Placebo. Che da un
lato ci sta anche, l'evoluzione è un bene, per carità. Se adesso avessimo
ancora sul palco il Molko quarantenne che lancia via il microfono stizzito e
disperato (e fatto) sulla fine di My
Sweet Prince o che piazza fuck a
destra e a manca perché fa-troppo-rockstar (quella fase che, per inciso, il
Bellamy non ha ancora superato), ecco, se sul palco ci fosse ancora quel Brian
lì, probabilmente io starei ugualmente scrivendo la recensione del loro ultimo
album - una fangirl è pur sempre una fangirl eccheccazzo - ma sarei comunque in
qualche modo consapevole del processo di fossilizzazione in atto.
Non si può fare il poeta maledetto a vita, a un certo punto
bisogna andare da qualche parte, e su questo il Molko di BFTS ci aveva anche preso.
Solo, pareva che questa nuova direzione fosse davvero un po'
troppo...hem hem...solare.
Con Loud Like Love
i Placebo tornano in tutti i sensi in cui si può tornare. Tornano ad essere
musicalmente vicini alle loro origini e al tempo stesso tirano fuori un album
che ha la bellezza struggente di Meds
- che per me rimane il loro capolavoro assoluto - e l'unità interna di uno Sleeping Whit Ghosts.
Se in BFTS si
rifletteva tutta l'esaltazione - forse un po' forzata - per essere in qualche
modo sopravvissuti, ora arriva il
momento di fare i conti con i propri fantasmi. Qui più che in qualsiasi altro
album Brian pare aver sperimentato cosa vuol dire vivere con i fantasmi. Quelli
del proprio passato, ma soprattutto quelli del proprio senso di colpa. E' il
principio per cui non basta semplicemente smettere di comportarsi male. La
parte difficile arriva quando devi imparare a convivere con la consapevolezza
di essere stato in grado di compiere certe azioni, quando prendi coscienza di
quanto in basso era il fondo che sei riuscito a raggiungere.
Loud Like Love è
un album che parte con una carica di energia inaspettata, con il brano omonimo
dalla struttura casuale e dal ritmo che ti entra in testa e che sembra fatto
apposta per aprire i live per farti cominciare a saltare, ma è un album tutt'altro
che leggero.
E' una lenta discesa nelle profondità delle dinamiche che si
instaurano nei rapporti. Con un partner ma anche con se stessi.
Se Scene of the crime
- forse un po' tamarra ma con quel retrogusto anni Ottanta che fa perdonare
anche la tamarria - segue la carica della traccia precedente ed è
effettivamente potente, Too Many Friends
- singolo di lancio, video di Saman Kesh in collaborazione (ahimè - questa non
gliel'ho ancora perdonata) con Bret Easton Ellis - nonostante l'inizio ironico
del My computer thinks I'm gay,
sposta già leggermente l'asse melodico su un piano più malinconico. E se sulla
tematica dei social network non si trova poi chissà che di originale da dire,
resta sicuramente un brano sincero.
E comunque il video è davvero ben fatto.
Con Hold On To Me siamo
catapultati nel mezzo di quel dialogo continuo di Brian con se stesso, nella
sua continua ricerca di un equilibrio interiore, nelle sue domande di senso. La
struttura di Hold On è molto
complessa e termina con un parlato che fa apprezzare una versione insolitamente
bassa della voce di Brian. Peccato che proprio questa parte parlata sia il
maggior ostacolo al fatto che la inseriscano in setlist dal vivo.
E' un processo di trasformazione costante ed tutto molto più
collegato di quanto non sembri.
Se Meds si chiudeva
con la suicide note di Song to Say
Goodbye con la quale Brian diceva definitivamente addio a quell'altro se
stesso che era, per così dire, la sua metà oscura, e se con BFTS, torna apparentemente libero da
quell'ombra - e ci mette talmente tanta energia nel cercare di convincere tutti
da rendere palese il fatto che l'impresa più ardua è convincere se stesso -,
ora viene a patti col fatto che quell'ombra a cui ha cercato di dire addio se
la porterà dietro per sempre.
A Million Little
Pieces è uno dei testi più dolorosi dell'album, e uno dei più dolorosi che
lui abbia mai scritto.
In quel now my
mistakes are hunting me e in quel all
my dreaming torn in pieces c'è il nucleo doloroso di ciò che lo spinge. E
c'è molto dello spirito dell'album.
In mezzo c'è Rob the
Bank, voce leggermente distorta, testo non particolarmente complesso e
struttura forse un po' scontata ma comunque un buon pezzo.
Exit Wounds. Al
momento la mia preferita.
Quando uscì la tracklist dissi che quella era una canzone
per la quale ero andata in fissa prima ancora di sentirla. Non poteva essere
altrimenti, con quel titolo. Anche solo il titolo fa male. Ed è geniale.
E' la gelosia che ti fa impazzire. E' il dolore fisico
dell'assenza. E' pioggia torrenziale. Sono urla che si perdono dentro i tuoni.
Sono le notti che non passano, quelle cattive, e i ricordi che si preferirebbe
non avere. Voce molto bassa di Brian nella prima strofa. Ritornello che esplode
e che sembra voglia trascinare via tutto. Exit Wounds è disperata e bellissima.
Purify arriva ad
allentare un po' la tensione. Subito l'ho un po' snobbata, definendola la bonus
track dell'EP B3 - e in effetti come
stile ci sta - la socia l'ha definita la versione riuscita di B3 e a pensarci bene anche quello ci sta
- però non è niente male neanche lei.
Sicuro che è un brano da pogo, ma ho intenzione di essere
talmente davanti il 23 novembre che confido che non me ne accorgerò neanche.
Begin The End con
il suo ritmo cadenzato, lento e ossessivo rende bene l'atmosfera soffocante di
una fine senza possibilità di appello. Di un dolore inflitto per mancanza di
una reale scelta. Quando ferire diventa una questione di sopravvivenza.
E poi arriva quello che Brian stesso ha definito il brano
più personale che abbia mai scritto. Quello che lo vede più vulnerabile in
assoluto. E che - aggiungo io - per questo probabilmente non lo si vedrà mai
dal vivo.
Bosco - il titolo
è casuale - è rivolta ad una persona in particolare e probabilmente agli anni
in cui lui era prossimo a toccare il fondo.
E' una di quelle cose così oneste da far male.
Una di quelle cose che mi ricordano perché amo questa band
da sempre e perché continuerò ad amarla.
Stef al pianoforte, il meraviglioso violino di Fiona, un
testo tra i più belli che Brian abbia mai scritto fanno di Bosco un vero e proprio gioiello che chiude l'album con un senso di
profonda malinconia e immensa bellezza.
In generale hanno usato molto il piano - cosa di cui io mi
rallegro tantissimo. Brian si dev'essere accorto che Stef lo sa suonare e ne ha approfittato.
Molta elettronica. No, meglio. Non molta elettronica di per
sé ma molta rispetto ai loro standard.
E molti anni Ottanta. Che saltano fuori un po' ovunque a
tradimento.
LLL è un album
curato in modo maniacale in ogni dettaglio. Si legge un enorme studio dietro
ogni canzone sia dal punto di vista stilistico sia nei contenuti. E' un album
che - come ha più volte dichiarato Brian in varie interviste - racchiude tutto
quello che loro sono e sono stati in questi ultimi vent'anni.